Processo creativo: l’installazione a Can Tiana

Processo creativo

Gli psicoanalisti descrivono il processo creativo per fasi che avvengono in successione o che si sovrappongono e si alternano. Lo definiscono come una sequenza di eventi che va dall’individuazione del problema all’elaborazione e la messa in pratica di una soluzione tra le possibili ipotizzate, che avviene sia a livello cosciente che a livello visionario attraverso flussi altalenanti di pensiero logico (lineare: causa/effetto, prima/dopo) e pensiero analogico (non-lineare: somiglianze/differenze, relazioni/opposizioni). Un percorso che inizia con l’organizzazione dei dati e termina con le verifiche e la condivisione del lavoro svolto.

Il processo creativo artistico consiste nella ricerca di una proposta non convenzionale ma adeguata alle circostanze, attraverso l’elaborazione e l’organizzazione mentale delle idee, che si materializza con l’uso dei materiali disponibili. Tutto ciò si realizza secondo una dinamica fatta di piccole decisioni all’interno di grandi scelte che si alternano e si influenzano mutuamente.

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Installazione a Can Tiana: “Cuando esto estalle”

P9Artiu è un collettivo artistico, di cui faccio parte, che promuove attività artistico-culturali basate sulla collaborazione delle associazioni locali ed il coinvolgimento della pubblica amministrazione. Una caratteristica delle nostre proposte è quella di attivare spazi che non sono destinati abitualmente a questi usi o che risultano addirittura abbandonati. In occasione dell’evento “Tallers Oberts del Poblenou 2017” (studi d’arte del quartiere Poblenou di Barellona aperti al pubblico, nel quale risiedono e lavorano moltissimi artisti) abbiamo voluto organizzare un’esposizione collettiva ed invitare altri artisti che non avessero uno studio proprio o visitabile.

Dopo vari mesi di negoziazione con l’amministrazione comunale, ci è stata data la possibilità di attivare uno spazio di sua proprietà attualmente dismesso, al quale avremmo dato un uso culturale e pubblico. È Can Tiana, a Poblenou, nell’area d’interesse del progetto di trasformazione urbana 22@. Si tratta dell’ultimo capannone ancora dismesso di un ampio complesso industriale del XIX sec. già recuperato e trasformato per nuove funzioni.

 

Un edificio rettangolare, molto grande, costituito da una struttura di 68 campate composte da pilastri e travi metallici che sostenevano le volte catalane, con un muro perimetrale di mattoni intonacato, di diversi colori, lungo il quale si alternavano aperture murate recentemente e finestroni nella parte superiore. Un esempio storico di architettura industriale ancora in buone condizioni, senza cedimenti o detriti al suo interno, dove l’intonaco si scrostava ma il pavimento e le vetrate erano integri. Era privo di installazione elettrica e coperto di polvere. Quando lo abbiamo aperto, la prima impressione che tutti abbiamo avuto è stata sicuramente di forte suggestione: la poca luce della sera, che entrava dalla grande apertura dell’acceso e dalle finestre laterali, si diffondeva degradando fino alla quasi oscurità verso il fondo.

Dovevamo montare un’esposizione di scultura e pittura; io dovevo esporre i miei lavori. In quel momento sono sorte le prime domande, iniziava il processo creativo: cosa fare adesso? Entrare, camminare tra le colonne, farci dei giri in bici… per registrare le prime sensazioni e trovare dei primi indizi o quei suggerimenti che il contesto trasmette. Ciò che ho sentito fin da subito è stata la necessità di occupare quello spazio. Non avrei portato qui dei quadri. Questa era un’occasione da non perdere, in questo spazio si poteva realizzare qualcosa a grande scala. La premessa era che l’edificio non fosse solamente un supporto, ma un contenitore, per il quale trovare un contenuto e qui potevo realizzare un’opera capace di dialogare con la struttura che la avrebbe ospitata.

Le principali condizionanti erano il fatto che fossimo in cinque ad esporre, la scarsa luce naturale e i pochi giorni a disposizione. Diverse considerazioni mi hanno così portato a posizionarmi nella zona opposta all’ingresso, effettuando una chiusura dell’intero spazio e del percorso dei visitanti. Avevo a disposizione almeno 4 campate e la mia intenzione era di montare un’installazione tridimensionale; il senso di una installazione è quello di approfondire alcune correlazioni concettuali come contenitore/contenuto, opera/contesto, materia/spazio, presentare/intervenire e permanente/effimero.

Volevo mettere in relazione l’opera e l’edificio. Pensavo a come inserirla in modo da stabilire un confronto all’altezza della situazione, con un intervento proporzionato ma significativo. La struttura ortogonale poteva essere il punto di partenza e avrei usato la geometria e i colori per creare quel dialogo. Potevo lavorare sulle diagonali, per imprimere una direzione obliqua rispetto alla percezione prospettica centrale generata dall’impianto tipico del capannone industriale. L’idea era: “tagliare” lo spazio e “misurare” la sua dimensione. Inoltre avevo in mente anche una serie di concetti e parole, come “essenziale”, “chiarezza”, “affermazione”, “astrazione”, che mi hanno poi guidato durante tutto il processo creativo.

 

Iniziavano così a nascere varie ipotesi che nel frattempo disegnavo come prima forma di verifica. Alcune svanivano mentre altre si consolidavano. Ognuna di esse doveva inesorabilmente passare per il filtro della logica costruttiva. Potevano esserci dei piani inclinati e degli elementi sospesi, che avrebbero occupato varie campate. Ma come posizionare e montare gli elementi tridimensionali? Che colori usare? Piani come pareti, come grandi tele mosse da ventilatori o nastri tesi tra le colonne? Ho pensato a delle superfici riflettenti, ad una gradazione di colori ed anche ad ombre proiettate (purtroppo però l’elettricità non era ancora garantita ed ho dovuto abbandonare varie idee). Intuizioni e soluzioni che andavano poi rielaborate tra i corridoi di una grande superficie del “fai da te”…

È l’attività dell’immaginazione. Quando un’infinita quantità di input (esperienze sensoriali ed emotive, memoria e contesto culturale) formano l’oggetto di studio e lo trasformano nella proposta artistica. Un processo speculativo e di verifiche costituito da immagini mentali.

Dopo vari giorni sono arrivato a visualizzare l’installazione: una composizione di piani allungati disposti sulle diagonali tra i pilastri esistenti, non paralleli o in sequenza e di lunghezze diverse, con altri elementi collocati in modo da occupare la zona delimitata dai piani verticali ed a intersecare le traiettorie dei piani.  Le tre parti probabilmente di colori diversi, luminosi. Nell’insieme volevo mantenere l’allestimento aperto, la cui geometria, vista da diversi punti, si scomponesse e ricomponesse in nuovi allineamenti o intersezioni. Tra i piani si sarebbero anche aperte delle viste parziali sullo spazio attorno.

Era giunto quindi il momento di portare tutto il necessario nel capannone e di continuare lo sviluppo dell’idea sul posto (devo dire che il fatto di capire con quali materiali l’avrei montata ha influito abbastanza sull’idea finale). Infatti la disposizione dei vari oggetti  l’ho trovata dopo varie prove, muovendoli da un lato all’altro ed aggiungendo o togliendone alcuni, fino a trovare le giuste proporzioni e la migliore disposizione anche in funzione dell’interazione con la luce naturale. Tre piani inclinati ed opposti di colore giallo, costituiscono la parte più consistente; due elementi quasi piramidali, fucsia, disposti sul pavimento: questi spostano l’equilibro dell’insieme lateralmente; due aste sospese occupano gli spazi intermedi e attraversano l’ambito dell’opera secondo direzioni non ortogonali; altre tre aste appoggiate sui piani verticali completano il discorso.

Ho utilizzato dei cavi in tensione per appoggiare i pannelli e sospendere le aste riducendo così all’essenza la materializzazione dell’idea, una intenzione che si esprime anche con l’uso minimalista del colore.

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“Cuando esto estalle”

Mancava ancora una cosa: il titolo dell’opera. L’idea era sorta a partire da considerazioni sullo spazio e sul tempo di un edificio storico dismesso e svuotato, per il quale non esiste una destinazione d’uso; aspetti sui quali riflettere e da raccontare con un intervento artistico. L’estetica dell’installazione era chiaramente simile alle altre mie opere pittoriche, astratte, colorate e geometriche. Il risultato finale, però, era conseguenza di un modus operandi piuttosto che di un progetto esplicito. Gli elementi lineari ed i colori uniformi rispondono infatti a una volontà di semplificazione e astrazione programmatica, che ho sviluppato questi ultimi anni nel progetto “Contextualización”. In effetti sembra una composizione tridimensionale creata dalla separazione di elementi bidimensionali presi dai quadri: i pannelli gialli, le aste inclinate e le piramidi fucsia possono, infatti, rappresentare proprio dei piani, delle linee e dei triangoli ma nello spazio. Inoltre, il delicato equilibrio degli oggetti (i pannelli, dei quali, almeno a prima vista, non si vede alcun sostegno, le aste a mezz’aria e quelle inclinate solo appoggiate), dà una sensazione di instabilità e di transitorietà, come se il tempo si fosse fermato senza sapere cosa è successo prima o cosa succederà dopo. Cosicché, ad una visitante che ha colto e collegato questi messaggi è venuto in mente un titolo e me lo ha suggerito (che è anche una canzone, che non conoscevo, del gruppo musicale Facto Delafé Facto Delafé): “Cuando esto estalle”, che tradotto sarebbe “Quando questo scoppierà”. Mi è subito sembrato azzeccato! L’installazione come l’ “esplosione” di un quadro. Ed ho trovato altre due simpatiche coincidenze: nella mostra c’erano delle sculture con la forma tipica delle mine navali subacquee e nel video di quella canzone predominano –per mia grande sorpresa- i colori giallo e il fucsia…

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Questo fatto mi fa pensare alla relazione tra artista e pubblico ed alla considerazione del secondo come un fattore importante della creazione artistica. In tal senso parlò Marchel Duchamp in una riunione della Federazione Americana delle Arti a Houston (1957). Con il suo intervento, partendo dal presupposto che l’artista non avrebbe alcun ruolo nel giudizio intorno alla sua opera, spiegò come invece lo spettatore ne fosse l’unico interprete:  «Durante l’atto creativo, l’artista procede dall’intenzione alla realizzazione passando attraverso una catena di reazioni totalmente soggettive. […] Il risultato è una differenza tra l’intenzione e la sua realizzazione, differenza di cui l’artista non è affatto cosciente. […] Questa differenza tra quanto aveva programmato di realizzare e quanto ha effettivamente realizzato, è il personale coefficiente d’arte contenuto nell’opera, […] arte allo stato grezzo che deve essere raffinata da parte dello spettatore. […] Con il cambiamento della materia inerte in opera d’arte, ha luogo una vera e propria transustanziazione e l’importante ruolo dello spettatore è quello di determinare il peso dell’opera sulla bilancia estetica. […] In fin dei conti, l’artista non è da solo quando porta a compimento l’atto creativo; c’è anche lo spettatore che stabilisce il contatto fra l’opera e il mondo esterno, decifrando e interpretando le sue qualità profonde, e che, così facendo, aggiunge il proprio contributo al processo creativo.»

La creazione artistica è infatti questo, un istinto, un desiderio, una lotta che non finisce mai e che spesso per l’artista si conclude con una mezza vittoria; è un discorso che magari non verrà ascoltato, ma che è fondatore di un senso nuovo, che rimarrà scritto e tramandato alla posteriorità.

 

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